lunedì 10 aprile 2017

UT n. 59, I segreti sul web. Il racconto di Elvira Bonin: "Il segreto"


Ma che bella giornata di m...”, sbottò Valentina lasciando cadere lo zaino che andò ad afflosciarsi debolmente sul pavimento. L’eco della sua voce la fece voltare di scatto, come se qualcuno avesse potuto ascoltarla in quel pianerottolo sempre silenzioso e deserto. La chiave girò rumorosamente nella toppa della porta che, spinta con forza, andò a sbattere sulla parete di contro.
Non era per niente di buonumore quella mattina Valentina, dopo avere scoperto per caso il suo ragazzo che amoreggiava con la sua migliore amica.
Aveva salito con affanno le scale dell’Ateneo per correre e rifugiarsi nell’auletta di Penale. La lezione non finiva mai, della voce del professore le arrivava soltanto il suono, e quando quella si faceva più acuta si sentiva scoperta mentre inseguiva altri pensieri, e allora abbassava lo sguardo e fingeva di prendere nota sul quaderno.
Quando fu per strada non si accorse neppure della pioggia che le punzecchiava il viso e le appannava gli occhiali.
A casa non c’era nessuno ad aspettarla, solo il silenzio che le ronzava nelle orecchie e la penombra in cui la casa era tuffata dandole un senso di soffocamento e di inquietudine.
Tirò nervosamente la tenda pesante della grande vetrata. Un gatto avanzava quatto quatto, coda bassa, sul muretto. Pioveva. Tra i rami del grande abete piccolissime luci si inseguivano alternandosi nei colori, rosso, giallo, verde.
E’ Natale”, disse Valentina, e si ricordò che la mamma le aveva dato appuntamento per la sera per lo shopping di Natale.
Squillò il telefono. “Sarà Roberto”, pensò. “Mi ha cercato sul cellulare e l’ha trovato spento, ma io non rispondo, non ho voglia di ascoltare le sue bugie”.
Intanto un raggio di sole si era fatto spazio prepotentemente fra le nubi addensate andando a fissarsi sulla parete in fondo. Valentina si avvicinò al divano dove il sole batteva più forte. Le piacque quel calore. Si allungò sul divano e si assopì.
Gli squilli ripresero. Si fermarono. Ricominciarono. “Perché tanta insistenza?”. Valentina si alzò, sollevò la cornetta e, “Pronto, pronto”, una voce squillante, lontana, le arrivava dall’altra parte del filo in un italiano stentato. “Cerco la signora Franca. Telefono dalla Germania. Sono la figlia di Pino R. Sono qui con me mia sorella Giusi e l’interprete”. “Ha sbagliato numero”, disse Valentina. “La signora Franca è mia zia, e abita al piano di sopra.”
Ora la voce dell’interprete le fissava un appuntamento per il giorno dopo e alla stessa ora pregandola di informare la zia chiedendole di essere presente possibilmente con gli altri di famiglia.
Valentina era senza parole. Dopo il clic del telefono che chiudeva la conversazione lei rimase con la cornetta ancora sollevata, incredula, confusa.
Si erano sbagliati forse, ma c’erano troppi dettagli che le facevano credere dell’esistenza di altre due figlie dello zio in Germania. Come dirlo alla zia, ormai anziana, ora che lo zio non c’era più per giustificarsi, per parlarle.
La zia lo aveva sposato che era vedovo con due figli. Sapeva dei suoi viaggi all’estero, del suo lungo soggiorno in Germania da ragazzo quando nel dopoguerra la gente si spostava dall’Italia per cercare lavoro. Sapeva del disagio della lingua, delle sue difficoltà di capire e di farsi capire, ma mai le aveva parlato di una donna e di altre due figlie. Lo aveva conosciuto come un grande lavoratore. Era stato anche in Svizzera, in Arabia dove raccontava di un clima impossibile, 50-60 gradi, irrespirabile. Le aveva raccontato delle abitudini della gente che aveva conosciuto, e lei si era appassionata a quei racconti, ma quel segreto gli era rimasto nel cuore intoccato fino alla morte.
Valentina si vide bambina quando lo zio l’accompagnava a scuola al posto della mamma e del papà che andavano via presto per lavoro. Ricordava le attenzioni che lo zio aveva per lei perché non prendesse freddo quando d’inverno le giornate erano rigide e piovose. Ricordava il gioco della “sorpresa” che lo zio teneva stretta in pugno nelle sue mani grandi e aspettava che lei indovinasse la mano giusta per donargliela.
Chissà se in quei momenti di gioco lo zio non pensava alle sue bambine ormai donne mentre lui forse le ricordava ancora piccolissime come quando le aveva lasciate. Quale sofferenza poteva provare senza poterla mai comunicare a nessuno.
L’animo di Valentina era agitato da mille pensieri, dibattuta fra la rabbia, la pena, e la comprensione. Ripassò in rassegna alcuni momenti della sua vita e si ricordò di una conversazione quando ormai giovinetta lo zio le disse:”Tu sei grande ormai, devi stare sempre attenta alla tua scelta. Se sbagli la persona che deve stare con te quell’errore lo paghi per tutta la vita”.
All’improvviso lo vide sul letto di morte. Soffriva, ma sembrava che un pensiero solo lo affliggesse. Con un soffio di voce ripeteva di continuo una frase che lei in quel momento non capiva. “Non ho neppure una foto”, diceva nell’affanno di morte.
Ora finalmente Valentina si dava ragione di quelle parole sofferte, ripetute, incomprese. Fra tutti quelli che gli stavano intorno lo zio forse cercava le sue due bambine, le cercava disperatamente, non le aveva mai dimenticate.
Chi sono io per giudicare un uomo?”, sospirò Valentina, e si accorse che la sua rabbia iniziale, la delusione, avevano ceduto il posto a quell’affetto che aveva avuto per lui quando era ancora in vita.
E Roberto? Ma quella è un’altra storia.

Elvira Bonin

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