Indagando profili
rossi nella nebbia di Pechino o cogliendo lo sfrangiamento di una
etichetta adesiva strappata, Dante Marcos Spurio fotografa il
visibile. Certo, l'occhio di un fotografo ha una profondità desueta.
Non indaga, scruta. Non occhieggia, penetra. È come se sentisse
risuonare la litania di una preghiera in una chiesa piena
dell'immanente ma vuota di gente, in cui solo una tenda-sipario ne
dimensiona l'architettura essenziale.
Poi, stanco del
rintocco delle campane, si riappropria della dimensione umana che un
paio di scarpe abitate poggiano a terra per non volare. Volare
perché, poi? I rifiuti sono un segno, magari un simbolo, forse solo
sciatteria per niente fantastica né fantasiosa.
Ed è allora che
spuntano i riflessi, come ricorsi, come armonie, come melodie, come
ritmi di un bianco e nero sfolgorante nel suo gioco di specchi che
rimandano a Doisneau (ma quanto lo amiamo!) Risuona il rock acido
della corrosione figlia della violenza. E se il disprezzo assume la
forma di uno scarico, è perché lì finiscono le idee di un mondo
insudiciato dall'inerzia di una vita che scorre senza che nessuno
riesca a darle un senso.
Volano bestemmie e
imprecazioni, in quel lavandino che non ne vuole sapere di tornare ai
vecchi fasti, proprio come quell'incensiere che abbiamo lasciato
tanto tempo fa all'alba di un vecchio villaggio.
Ma la visione si fa
prospettica e il mondo ci richiama alle nostre responsabilità. Siamo
figli di schemi indistruttibili che gli architetti delle nostre
esistenze disegnano sulla carta per poi fissarli in aree, spazi e
spiazzi sperando che qualcuno, osservandoli, possa dire: “Wow”!
Resta però una sorpresa che nell'asettico non ti aspetteresti mai:
la voglia di un ragazzino di percorrere cunicoli svettanti costruiti
dai grandi per altri grandi. La sfida continua e i due mondi, quello
degli adulti e quello dei bambini, si incontrano senza scontrarsi ma
penetrandosi. Un messaggio? Forse, magari di pace, se non altro
interiore.
Ma dalle costruzioni
degli adulti si scende e davanti si sviluppa la strada.
Inizia il cammino,
si scoprono foreste e cascate disegnate sull'asfalto al posto degli
stupidi segni che ci obbligano a seguire quel percorso segnato da
frecce che non danno speranza. A destra, a sinistra, mai avanti,
dritti e con la schiena dritta, da uomini e non da automobilisti
distratti, men che meno, pedoni. Dante Marcos ruba colori che
assumono sembianze, tratti e ritratti fisici che occupano spazi
altrimenti inerti.
È il gioco delle
dimensioni quello che spinge un paio di baffi a stringere in mano un
bicchiere. È la versione Social Club di questo “Wenders”
dall'occhio magico. E se il piano di marmo si colora di rosa, rosso è
il cappello che fa pendant con il vino, l'aranciata di tarocchi, la
brocca dell'acqua e un tabacco da rollare perché l'altro, quello
preconfezionato, un po' ci fa schifo.
Lilly è seduta,
poggia la testa sul ginocchio perché l'aria della sera è dolce e
favorisce l'assopirsi lento di un'anima in pena. È bella Lilly, con
lo scialle e le frange, il braccialetto color carne e il fiore nei
capelli. Se non fosse Lilly sarebbe Marinella o perché no, Bocca di
Rosa dopo l'ultimo bacio. Se non fosse Lilly sarebbe Carmen perché
le “ballerine” lo sono davvero e non avere tacchi spinge a balli
sfrenati sull'aia di Jenny.
Quanti amori è
Lilly? Quanti pensieri e quante emozioni vive durante le sue giornate
trascorse aspettando la notte? Allora non è più l'occhio del
fotografo che ne cattura la posa, ma lo sguardo preoccupato
dell'amante in attesa di una risposta che non verrà mai perché di
domande non ne ha fatte. Il mondo di Dante Marcos Spurio è un
“wendersiano blues”, quello che attraversa i Cieli di Berlino e
la Bodeguita del Medio in un giro di accordi che parte da un mi7 e va
finché può, finché vuole.
E la Lilly di Dante
ci fa impazzire perché su quel ginocchio vorremmo addormentarci
anche noi.
Foto: Dante Marcos Spurio
Testo: Massimo Consorti
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