Non
avresti dovuto, Roberto Vecchioni, scrivere versi come questi: le
lettere d’amore / fanno solo ridere: / le lettere d’amore / non
sarebbero d’amore / se non facessero ridere1. Non
si può liquidare con alchimie linguistiche presuntuose i palpiti
della mentecuore che vogliono significare il senso, a volte, cercare
di analizzare i termini di una pulsione vissuta come ricerca della
propria identità. Penso a come ti avrebbe risposto l’irreprensibile
badessa Eloisa a difesa della sua esperienza amorosa totalizzante:«
Ho amato con tutta me stessa, ho vissuto con tutta me stessa, ho
scritto con tutta me stessa. Sono la mia scrittura. La mia scrittura
è la mia anima». Per questo non le possono bastare neppure le
parole del suo Abelardo, dialettico insigne: Ci trovammo prima
uniti nella stessa casa poi nello stesso cuore, che
ripercorrono la loro passione onnipresente, arenata nella
concupiscenza. Giungendo a dire nei Problemata: nulla può
inquinare l’anima se non ciò che viene dall’anima. E con
asserzione perentoria: Io che ho molto peccato sono completamente
innocente.
E
come potremmo capire la complessa avventura umana e letteraria di
Emily Dickinson se non sfogliassimo le numerose lettere (più di 300)
indirizzate a Susan Gilbert (le risposte di questa, purtroppo, sono
state distrutte). L’esilità, la semplicità e la quotidianità da
cui prende le mosse la scrittura dickinsoniana si caricano di una
forza irriverente, di una pensosità colma, di una ebbrezza vitale
insospettabili. Starei per dire la miglior Dickinson, se non fosse
che è proprio il passo esile, lento, esitante della sua poesia a
farla unica. Ma qui, il sentimento provato, qualunque esso sia, rompe
gli schemi della convenzione e si abbandona all’abisso del sogno
incarnato: il mio cuore è pieno di te, sino alla reticenza
audace: non abbiamo bisogno di parlare a tutti…e aggiungo un
bacio, timidamente, che non ci sia qualcuno lì! È una misura
aggiunta, è un fare desueto che spalanca una diversità poco
avvertita, e che sarebbe passata sotto silenzio.
Hai
mai letto la complessa lettera di Oscar Wilde a Lord Alfred Douglas
scritta dal carcere di Reading, dove era finito nel 1897 per il reato
di sodomia? Te ne voglio ricordare un frammento celebre per la sua
intensa drammaticità:
Mio
carissimo ragazzo,
questo
è per assicurarti del mio amore immortale, eterno per te. Domani
sarà tutto finito. Se la prigione e il disonore saranno il mio
destino, pensa che il mio amore per te e questa idea, questa
convinzione ancora più divina, che tu a tua volta mi ami, mi
sosterranno nella mia infelicità e mi renderanno capace, spero, di
sopportare il mio dolore con ogni pazienza. Poiché la speranza,
anzi, la certezza, di incontrarti di nuovo in un altro mondo è la
meta e l’ incoraggiamento della mia vita attuale, ah! debbo
continuare a vivere in questo mondo, per questa ragione.
Il
finissimo ragionatore, il grande poeta, il commediografo esilarante,
il pungente aforista onniargomentativo, il dandy per antonomasia si
ritrova in una confessione paradossale nei confronti del suo modus
vivendi et operandi. Si avventura in un territorio dove la prassi
dell’anomalia esistenziale, tanto cercata e vissuta, diviene
sorprendentemente sublimata in uno slancio ideale, quasi ad inverare
l’auspico riposto dalla madre nella scelta del nome tratto dalla
mitologia irlandese: figlio di Oisín poeta e guerriero, nato nella
terra dell’eterna giovinezza. Nella dura esperienza del carcere la
sublimità dell’amore nei confronti della ottusa concupiscenza,
rende Oscar un maestro di saggezza nei confronti della meschinità
degradante del discepolo Bosie (Lord Alfred Douglas), riscoprendo il
significato profondo e insostituibile del dolore nella vita umana: Il
dolore è la suprema emozione di cui l’uomo è capace. Questa
lettera, dalle lunghe peripezie, è stata correttamente ed
integralmente pubblicata solo nel 1962 da Ruper Hart-Davis. Oggi fa
parte dell’intero corpus di lettere edito nel 2000 a New York da
Marlin Holland e Ruper Hart-Davis con il titolo di The Letters of
Oscar Wilde, dal quale è stata riscritta la complessa vita
dell’autore.
Lettere,
quindi, come vita e non pezzi di archeologia sentimentale per
voyeurs. Tanto meno da far ridere.
Avresti
fatto meglio, Roberto, a far tesoro di quanto dicono questi versi del
tuo amico Pessoa, al quale hai dedicato la canzone citata all’inizio:
Se dopo la mia morte volessero scrivere la mia biografia, / non
c’è niente di più semplice. / Ci sono solo due date – quella
della mia nascita e quella della mia morte. / Tutti i giorni tra
l’una e l’altra sono miei*.
Noi
possiamo e dobbiamo solo sforzarci di comprenderli. E basta.
*Roberto
Vecchioni, Le lettere d’amore, dall’Album Il cielo
capovolto, 1995.
*Fernando
Pessoa/Alberto Caeiro, Poemas Inconjuntos, in “Atena” n.
5, febbraio 1925.
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