E
già preparavano il rogo, e le fiaccole da agitare, e il feretro: il
corpo era scomparso. Al posto del corpo trovarono un fiore: giallo
nel mezzo, e tutt’intorno petali bianchi.
Il
mito di Narciso è raccontato da Ovidio come una vendetta d’amore.
L’avverarsi di una maledizione lanciata da uno dei giovinetti
respinti. Mi chiedo come possa essere letto oggi da una donna che da
sempre ne è invaghita avendolo scelto come uno dei miti fondanti
della propria storia, d’istinto, senza nemmeno chiedersi perché.
Forse attratta dall’immagine di una bellezza specchiata nell’acqua
e di un fiore dal profumo inebriante che unisce candore e fuoco.
Perché
l’amore di sé può diventare prigione sfinimento e perdita, fino
alla morte? Che cosa giustifica una tale spinta d’amore,
apparentemente assurda e frutto solo di inganno, di un tremendo
errore, per cui l’altro coincide con la propria figura e se ne
cerca invano il possesso?
Il
discorso dell’Altro mi sembra particolarmente importante oggi, in
un periodo storico in cui il modello della società multietnica si
diffonde ovunque, portando con sé un carico sempre maggiore di paura
e diffidenza. L’Altro ci manca sempre
e comunque, a volte in modo totale e improvviso, a volte attraverso
uno stillicidio di gocce di lontananza; nello stesso tempo il tu è
necessario per dire io e non facciamo che cercarlo, molto di più di
quanto cerchiamo noi stessi.
Ecco
allora l’impulso di affondare in sé, inteso non come possibilità
di una mistica esplorazione-costruzione del castello interiore, ma
come desiderio di possesso. E forse c’è qualcosa di più fondo e
misterioso nello specchio dove
ogni giorno chi è solo cerca conferma del suo esistere: lasciar
correre il desiderio dell’accoglienza-coincidenza riflessa; del
bisogno e della soddisfazione del bisogno, senza necessità di
traduzioni o interpretazioni. Un solo linguaggio, la parola che
finalmente combacia con il significato. Niente maschere, la fonte è
dentro il proprio cuore, attingibile in ogni istante. Fonte d’amore.
Ma
l’autoinganno del narcisismo è la ricerca di un punto di quiete
che mantenga i tratti di un volto conosciuto, il più conosciuto,
quello che non possiamo lasciare. Sarebbe molto bello, se non fosse
maledetto, questo amore di sé, confidente spirituale trasparente
come una polla d’acqua sorgiva. Riposo dall’alterità che ogni
giorno ci dilania un po’, ci sottrae la desiderio, ci costringe a
patteggiare fino alla rinuncia, quando il dialogo diventa niente
altro che dolore.
Narciso
ha provocato sofferenza con i suoi dinieghi e a sua volta deve averla
vissuta, se specchiandosi si trova così bello da dimenticare chi è
e da voler giacere a tutti i costi nell’impronta di se stesso,
anima e corpo, strappato il velo che li separa. Egli vorrebbe
ricondurre l’anima dentro una corrispondenza che perfettamente le
rassomigli, stringersi a sé come nei pericoli, tenersi unito,
intatto, intangibile.
Forse
il fiore che alla fine rimane, il bellissimo narciso delle
Metamorfosi che trema al vento di maggio
lungo i pendii di montagna, potremmo provare a leggerlo come
l’emblema di un innamorato candore che finalmente si offre a noi
con tutto il suo profumo.
Maria Grazia Maiorino
Nessun commento:
Posta un commento