giovedì 22 dicembre 2016

In attesa di UT La sposa. Americo Marconi: "Il pesce rosso"



Il pesce rosso

Vive in una boccia di vetro larga un palmo d’uomo.
Il tempo è misurato dallo scorrere dell’acqua tra le branchie, dal cibo che galleggia, dalle luci che si accendono e si spengono.
Le pareti che racchiudono il liquido sono trasparenti e deformano l’ambiente al di là di esse. A malapena percepisce piante, mobili, corpi. Uno in particolare sfiora delicato il cristallo facendo vibrare le sue viscere con un misto di dolore e gioia. Nei travasi si sono toccati: il calore della pelle ruvida ha suscitato emozioni in lui, abituato com’è al freddo.
D’improvviso, per più di una settimana, gli furono negate le poche scaglie di mangime e, ancora peggio, non ricevette acqua fresca per respirare. Inutilmente boccheggiava in superficie alla ricerca d’aria. Sfinito si posò sul fondo piatto, percependo un gelo crescente.
Fu allora, solo allora, che comprese di avere paura, non di morire – che senso aveva, si era sempre chiesto, trascorrere il tempo nuotando in attesa del pasto? - ma di essere solo. Capì il perché dell’emozione al contatto delle calde dita e pensò, per la prima volta, ai suoi simili. Esisteva qualcun’altro che assomigliasse all’immagine riflessa dalla vitrea parete? Era troppo tardi per domandarselo. Degli spasmi diffusi nel corpo rendevano impossibile il pur minimo spostamento.
E perché moriva? Si chiese. Perché soprattutto era vissuto? Forse non a lungo, ma era vissuto.
Un pesce non piange: le sue lacrime non hanno la forza di uscire contro la pressione, un pesce muove la bocca sempre più lentamente come stupito che tutto stia finendo.
Ci fu un bagliore che invase il liquido ormai lattescente, la solita mano cambiò l’acqua, e lui tornò lentamente a rivivere. Ma i quesiti suscitati dal pericolo estremo non l’hanno più abbandonato,
diffondendo una spessa tristezza nel fluido intorno.
Un avvenimento inatteso spezzò la ciclicità senza fine del tempo: la stessa persona si avvicinò al vaso e ci pose dentro un altro pesce. È più piccolo di lui, ancor più rosso, con due protuberanze sotto il collo che lo rendono grazioso o meglio graziosa, perché ha scoperto che è femmina.
La prima scaglia colorata aspetta che la mangi lei nel timore che non ne giunga una seconda e le danza intorno senza posa. Ogni notte cerca la pelle scivolosa come la sua che rassicura e aumenta la
certezza del domani.
Ha immaginato, forse in sogno, un ampio lago di acqua limpidissima e loro dentro, liberi e felici.

In attesa di UT La sposa. Roberta Lazzarini: "Senza titolo"



Senza titolo

Troppo breve la notte,

i sogni si contraggono in segmenti,

fluttuano, si associano e scompaiono

in veglie insane.

Gli occhi scivolano su assi,

tavole incise e cornici dorate.

Nel buio mi raffronto e temo

le foglie gialle intrappolate nei quaderni.

Attendo immobile nuove invasioni

di fantasie bambine.

Cavalli a dondolo e fate turchine nel bosco

e tu al mio al mio fianco, Pollicino.

mercoledì 21 dicembre 2016

In attesa di UT La sposa. Elvira Bonin "La fuga"


La fuga

Quando fu per strada, Lila si guardò intorno, cauta. Non c'era nessuno, solo una lunga fila di macchine accostate al marciapiede, e qualche cane randagio che si aggirava intorno al cassonetto dei rifiuti. Il rumore del portone che si richiudeva alle sue spalle la fece voltare di scatto. Provò un brivido.
Quella casa per lei si chiudeva per sempre, e con essa un passato recente che voleva dimenticare.
Sollevò lo sguardo verso i balconi, non li riconosceva come suoi. Le persiane sempre chiuse, le doppie tende, una sull'altra, perché da fuori non si intravvedesse neppure un filo di luce, le avevano rese estranea quella parte della casa.
Tutto all'interno era claustrofobico. I mobili, incollati l'uno all'altro, la cucina tutta bianca, con il vetro opaco bianco sul tavolo, le sedie bianche, le pareti spoglie bianche, le persiane sigillate che le procuravano un senso di angoscia.
Spiccava solo il rosso acceso dei peperoncini cerati appesi in un angolo per scacciare il malocchio secondo la mente contorta del marito.
Rivide davanti a sé la nera scrivania pesante, con i piedi a zampa, i divani incellofanati, la libreria soffocata da tendine pesanti e scure, che non lasciavano intravederne il contenuto.
La camera da letto? No, non la voleva ricordare.
Afferrò il trolley e corse via da quella strada assolata e deserta di quel primo pomeriggio d'autunno.
Quel letto sarebbe diventato il suo sudario se non avesse avuto il coraggio in quel momento di fuggire.
Vedeva fissi su di lei gli occhi del marito, vitrei, freddi, impenetrabili, quando la minacciava, il cuscino in alto in una presa agghiacciante, e lei raggomitolata per terra o nel letto, con gli occhi imploranti e in silenzio, in preda al panico.
Camminava frettolosa, guardinga, sollevando di tanto in tanto quel trolley pieno di niente che cigolava sul selciato. Vi aveva messo dentro alla rinfusa qualche ricambio, un libro di studio, una bambola di lenci, un regalo della mamma che l'accompagnava nei momenti difficili o di solitudine.
Svoltò in fretta, e si trovò sul vialone che fiancheggiava il mare. Gli specchietti di luce nell'acqua le arrivavano agli occhi come lame taglienti, e l'odore degli oleandri sulla strada mescolato alle esalazioni dell'asfalto rammollito dal sole le irritavano le narici già provate dalle lunghe tirate che trattenevano il pianto.
Dove andava? Rasentando i muri delle case si guardava intorno ad ogni traversa. Ogni angolo poteva essere un'insidia.
All'ultimo litigio, all'ultima minaccia era scappata via, approfittando del rientro al lavoro del marito.
Aveva in tasca solo 20 euro che aveva da tempo gelosamente custodito, e un panino confezionato in fretta insieme a una bottiglietta d'acqua. Nel portamonete, due biglietti da 50 euro che avrebbe speso solo in caso di estrema necessità perché erano le prove tangibili, che sarebbero servite in caso di giudizio, dell'ultima umiliazione subita la sera precedente da parte del marito.
Quei soldi che le sarebbero dovuti bastare per una settimana le erano stati dati intrisi di sputo ed attaccati in faccia come il timbro agli animali.
L'immagine di quei soldi incollati al viso, maleodoranti di sputo e pieni di lacrime, l'accompagnò per un tratto di strada, e le dette la forza di resistere, di andare avanti, di vincere la paura.
Squillò il telefono. Si sentì raggelare all'istante. Il marito la cercava, ne era certa, aveva scoperto la sua fuga.
Affrettò il passo, la strada da percorrere era lunga. Le macchine scorrevano veloci, superando i semafori senza ostacoli, e lei, sola, indifesa, aggrappata a quel trolley, che nella fretta si inceppava nelle crepe.
Il telefono stretto nella mano, quasi a farsi male, squillava, e lei lo lasciava squillare senza leggere il nome sul display, Dopo ripetuti richiami si fece coraggio, e lesse “Papà”.
Ora era certa. Il marito la cercava, e aveva informato tutti della sua fuga.
Cominciava ad essere assalita dal panico. All'ennesimo squillo rispose con la voce che a stento le usciva di gola per l'affanno della corsa e la paura.
“Lila, Lila, sono papà. Dove stai? non avere paura. Dimmi solo dove stai”.
“Alla stazione dei bus, sono appena arrivata.”.
“Non muoverti. Stiamo arrivando”.
Lila cercava di confondersi tra la gente. La macchina si fermò davanti a lei, e due braccia amiche l'avvolsero, cariche di affetto.
Davanti a loro si fermò anche la macchina del marito, che scese infuriato, aggredendola con parole volgari, minacciandola e ordinandole di tornare a casa.
Lei lo guardò a testa alta, ed ebbe il coraggio di dirgli:”Vattene, vattene via. Mi fai paura. Ho paura di te, Ho paura di stare con te”.
Abbandonata nella macchina, non aveva più forze, e si lasciò andare a un pianto silenzioso, infinito. Le lacrime calde le scioglievano la paura, l'ansia, il dolore.
Si sentiva svuotata di tutto, di sogni, di sentimenti, di pensieri. Sentiva solo il cuore pesante, e quel peso le toglieva il respiro.
A casa dei suoi si sentì al sicuro. Come un cane frustrato, si rannicchiò in un angolo sul divano e se ne stette in silenzio, col capo chino, come fosse colpevole di qualcosa.
Lei aveva soltanto scelto di vivere.
Quella sera la mamma le preparò amorevolmente il suo letto come quando era bambina. L'abbracciò sorridendo per farle coraggio, e andò via per lasciarla libera coi suoi pensieri,
Nella notte, quasi all'alba, la madre tornò a trovarla, e Lila era ancora lì, sveglia, raggomitolata sul divano, col cappottino ancora addosso, e le scarpe da tennis com'era scappata.
La madre si avvicinò a lei, la baciò sulla fronte e, dolcemente, senza parlare, l'aiutò a spogliarsi.
Il fresco delle lenzuola, l'odore delle coperte di casa, il suo materasso di ragazza, la luce dell'alba che filtrava dalle fessure del balcone, le sollecitarono il sonno, e lei, stanca e spossata, per la prima volta dopo tante notti, poté addormentarsi sicura, senza più la paura di non doversi più svegliare.

lunedì 19 dicembre 2016

In attesa di UT La sposa. Carla Civardi: "Verso l'altare"



Verso l'altare


Ancestrale desiderio di figlia,

voglia di diventare un intero.

Immagine nitida di angelo bianco

che incontra il guerriero vestito di nuovo.

Fiori, lacrime dolci, scintillii,

oro di sangue che riempie il cuore.

Spontanea promessa di amore eterno,

necessaria presenza di perdono e pazienza.

venerdì 16 dicembre 2016

In attesa di UT La sposa. Daniela Agostini: "La sposa bambina"



La sposa bambina

Lasciò a casa
l’ultimo sorriso
la sposa bambina di Kabul.
Nuvole di piombo e cenere
oscuravano il suo cammino
e fragori di tuono urlavano al destino
una vita già segnata
da una dote consegnata
a una misera famiglia
che vendeva una sua figlia.
Suoni e balli la spingevano,
calici colmi la stordivano
mentre al baratro giungeva
come agnello immacolato
da un aguzzino condannato.
La manina ancora calda
dei suoi giochi più innocenti
s’è ora spenta nella putrida
lascivia d’una legge disumana.
Batte ancora la paura
nel petto della sposa
per quel rito consumato
che esalta il candore
d’un vestito insanguinato. 

mercoledì 14 dicembre 2016

In attesa di UT La sposa. Gabriella Grande: "Lo stupore è una sposa"



Lo stupore è una sposa


Ammantati da una luce che si arrosa
i muri delle case e gli occhi.
È il regalo dopo la pioggia,
come se dovesse piangere il cielo
per partorire la sua luce più bella.
Lo dicono tutti che dopo le lacrime
arrivano i sorrisi se si sa aspettare,
ma quando è questa luce a regalarsi
non si è mai abbastanza grati a
ciò che si crede un caso comunque,
come se quello che si aspetta
conservasse il peso e la forza del dono
nonostante l’ovvietà di un arrivo.
Perché, allo stesso modo,
non conserviamo stupore per noi,
per le nostre vittorie,
per quella spinta fino a rialzarci
sulla crosta dei nostri errori?
Non sappiamo piovere come il cielo.
E lo stupore è una sposa che non trova l’altare.


Gabriella Grande studia Medicina e vive a Taranto. Ha pubblicato raccolte di poesie nelle antologie “sChiavi diVersi” (ArtisticaEdizioni, 2014) e “Transizione –La ri/E/voluzione di una donna” (Casa Editrice & Libraria edit@, 2016). Cura il blog: gabriellagrandeblog.wordpress.com ed è collaboratrice recensionista per sololibri.net