La fuga
Quando fu per strada,
Lila si guardò intorno, cauta. Non c'era nessuno, solo una lunga
fila di macchine accostate al marciapiede, e qualche cane randagio
che si aggirava intorno al cassonetto dei rifiuti. Il rumore del
portone che si richiudeva alle sue spalle la fece voltare di scatto.
Provò un brivido.
Quella casa per lei si
chiudeva per sempre, e con essa un passato recente che voleva
dimenticare.
Sollevò lo sguardo verso
i balconi, non li riconosceva come suoi. Le persiane sempre chiuse,
le doppie tende, una sull'altra, perché da fuori non si
intravvedesse neppure un filo di luce, le avevano rese estranea
quella parte della casa.
Tutto all'interno era
claustrofobico. I mobili, incollati l'uno all'altro, la cucina tutta
bianca, con il vetro opaco bianco sul tavolo, le sedie bianche, le
pareti spoglie bianche, le persiane sigillate che le procuravano un
senso di angoscia.
Spiccava solo il rosso
acceso dei peperoncini cerati appesi in un angolo per scacciare il
malocchio secondo la mente contorta del marito.
Rivide davanti a sé la
nera scrivania pesante, con i piedi a zampa, i divani incellofanati,
la libreria soffocata da tendine pesanti e scure, che non lasciavano
intravederne il contenuto.
La camera da letto? No,
non la voleva ricordare.
Afferrò il trolley e
corse via da quella strada assolata e deserta di quel primo
pomeriggio d'autunno.
Quel letto sarebbe
diventato il suo sudario se non avesse avuto il coraggio in quel
momento di fuggire.
Vedeva fissi su di lei
gli occhi del marito, vitrei, freddi, impenetrabili, quando la
minacciava, il cuscino in alto in una presa agghiacciante, e lei
raggomitolata per terra o nel letto, con gli occhi imploranti e in
silenzio, in preda al panico.
Camminava frettolosa,
guardinga, sollevando di tanto in tanto quel trolley pieno di niente
che cigolava sul selciato. Vi aveva messo dentro alla rinfusa qualche
ricambio, un libro di studio, una bambola di lenci, un regalo della
mamma che l'accompagnava nei momenti difficili o di solitudine.
Svoltò in fretta, e si
trovò sul vialone che fiancheggiava il mare. Gli specchietti di luce
nell'acqua le arrivavano agli occhi come lame taglienti, e l'odore
degli oleandri sulla strada mescolato alle esalazioni dell'asfalto
rammollito dal sole le irritavano le narici già provate dalle lunghe
tirate che trattenevano il pianto.
Dove andava? Rasentando i
muri delle case si guardava intorno ad ogni traversa. Ogni angolo
poteva essere un'insidia.
All'ultimo litigio,
all'ultima minaccia era scappata via, approfittando del rientro al
lavoro del marito.
Aveva in tasca solo 20
euro che aveva da tempo gelosamente custodito, e un panino
confezionato in fretta insieme a una bottiglietta d'acqua. Nel
portamonete, due biglietti da 50 euro che avrebbe speso solo in caso
di estrema necessità perché erano le prove tangibili, che sarebbero
servite in caso di giudizio, dell'ultima umiliazione subita la sera
precedente da parte del marito.
Quei soldi che le
sarebbero dovuti bastare per una settimana le erano stati dati
intrisi di sputo ed attaccati in faccia come il timbro agli animali.
L'immagine di quei soldi
incollati al viso, maleodoranti di sputo e pieni di lacrime,
l'accompagnò per un tratto di strada, e le dette la forza di
resistere, di andare avanti, di vincere la paura.
Squillò il telefono. Si
sentì raggelare all'istante. Il marito la cercava, ne era certa,
aveva scoperto la sua fuga.
Affrettò il passo, la
strada da percorrere era lunga. Le macchine scorrevano veloci,
superando i semafori senza ostacoli, e lei, sola, indifesa,
aggrappata a quel trolley, che nella fretta si inceppava nelle crepe.
Il telefono stretto nella
mano, quasi a farsi male, squillava, e lei lo lasciava squillare
senza leggere il nome sul display, Dopo ripetuti richiami si fece
coraggio, e lesse “Papà”.
Ora era certa. Il marito
la cercava, e aveva informato tutti della sua fuga.
Cominciava ad essere
assalita dal panico. All'ennesimo squillo rispose con la voce che a
stento le usciva di gola per l'affanno della corsa e la paura.
“Lila, Lila, sono papà.
Dove stai? non avere paura. Dimmi solo dove stai”.
“Alla stazione dei bus,
sono appena arrivata.”.
“Non muoverti. Stiamo
arrivando”.
Lila cercava di
confondersi tra la gente. La macchina si fermò davanti a lei, e due
braccia amiche l'avvolsero, cariche di affetto.
Davanti a loro si fermò
anche la macchina del marito, che scese infuriato, aggredendola con
parole volgari, minacciandola e ordinandole di tornare a casa.
Lei lo guardò a testa
alta, ed ebbe il coraggio di dirgli:”Vattene, vattene via. Mi fai
paura. Ho paura di te, Ho paura di stare con te”.
Abbandonata nella
macchina, non aveva più forze, e si lasciò andare a un pianto
silenzioso, infinito. Le lacrime calde le scioglievano la paura,
l'ansia, il dolore.
Si sentiva svuotata di
tutto, di sogni, di sentimenti, di pensieri. Sentiva solo il cuore
pesante, e quel peso le toglieva il respiro.
A casa dei suoi si sentì
al sicuro. Come un cane frustrato, si rannicchiò in un angolo sul
divano e se ne stette in silenzio, col capo chino, come fosse
colpevole di qualcosa.
Lei aveva soltanto scelto
di vivere.
Quella sera la mamma le
preparò amorevolmente il suo letto come quando era bambina.
L'abbracciò sorridendo per farle coraggio, e andò via per lasciarla
libera coi suoi pensieri,
Nella notte, quasi
all'alba, la madre tornò a trovarla, e Lila era ancora lì, sveglia,
raggomitolata sul divano, col cappottino ancora addosso, e le scarpe
da tennis com'era scappata.
La madre si avvicinò a
lei, la baciò sulla fronte e, dolcemente, senza parlare, l'aiutò a
spogliarsi.
Il fresco delle lenzuola,
l'odore delle coperte di casa, il suo materasso di ragazza, la luce
dell'alba che filtrava dalle fessure del balcone, le sollecitarono il
sonno, e lei, stanca e spossata, per la prima volta dopo tante notti,
poté addormentarsi sicura, senza più la paura di non doversi più
svegliare.
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