“Ma
che bella giornata di m...”, sbottò Valentina lasciando cadere lo
zaino che andò ad afflosciarsi debolmente sul pavimento. L’eco
della sua voce la fece voltare di scatto, come se qualcuno avesse
potuto ascoltarla in quel pianerottolo sempre silenzioso e deserto.
La chiave girò rumorosamente nella toppa della porta che, spinta con
forza, andò a sbattere sulla parete di contro.
Non
era per niente di buonumore quella mattina Valentina, dopo avere
scoperto per caso il suo ragazzo che amoreggiava con la sua migliore
amica.
Aveva
salito con affanno le scale dell’Ateneo per correre e rifugiarsi
nell’auletta di Penale. La lezione non finiva mai, della voce del
professore le arrivava soltanto il suono, e quando quella si faceva
più acuta si sentiva scoperta mentre inseguiva altri pensieri, e
allora abbassava lo sguardo e fingeva di prendere nota sul quaderno.
Quando
fu per strada non si accorse neppure della pioggia che le
punzecchiava il viso e le appannava gli occhiali.
A
casa non c’era nessuno ad aspettarla, solo il silenzio che le
ronzava nelle orecchie e la penombra in cui la casa era tuffata
dandole un senso di soffocamento e di inquietudine.
Tirò
nervosamente la tenda pesante della grande vetrata. Un gatto avanzava
quatto quatto, coda bassa, sul muretto. Pioveva. Tra i rami del
grande abete piccolissime luci si inseguivano alternandosi nei
colori, rosso, giallo, verde.
“E’
Natale”, disse Valentina, e si ricordò che la mamma le aveva dato
appuntamento per la sera per lo shopping di Natale.
Squillò
il telefono. “Sarà Roberto”, pensò. “Mi ha cercato sul
cellulare e l’ha trovato spento, ma io non rispondo, non ho voglia
di ascoltare le sue bugie”.
Intanto
un raggio di sole si era fatto spazio prepotentemente fra le nubi
addensate andando a fissarsi sulla parete in fondo. Valentina si
avvicinò al divano dove il sole batteva più forte. Le piacque quel
calore. Si allungò sul divano e si assopì.
Gli
squilli ripresero. Si fermarono. Ricominciarono. “Perché tanta
insistenza?”. Valentina si alzò, sollevò la cornetta e, “Pronto,
pronto”, una voce squillante, lontana, le arrivava dall’altra
parte del filo in un italiano stentato. “Cerco la signora Franca.
Telefono dalla Germania. Sono la figlia di Pino R. Sono qui con me
mia sorella Giusi e l’interprete”. “Ha sbagliato numero”,
disse Valentina. “La signora Franca è mia zia, e abita al piano di
sopra.”
Ora
la voce dell’interprete le fissava un appuntamento per il giorno
dopo e alla stessa ora pregandola di informare la zia chiedendole di
essere presente possibilmente con gli altri di famiglia.
Valentina
era senza parole. Dopo il clic del telefono che chiudeva la
conversazione lei rimase con la cornetta ancora sollevata, incredula,
confusa.
Si
erano sbagliati forse, ma c’erano troppi dettagli che le facevano
credere dell’esistenza di altre due figlie dello zio in Germania.
Come dirlo alla zia, ormai anziana, ora che lo zio non c’era più
per giustificarsi, per parlarle.
La
zia lo aveva sposato che era vedovo con due figli. Sapeva dei suoi
viaggi all’estero, del suo lungo soggiorno in Germania da ragazzo
quando nel dopoguerra la gente si spostava dall’Italia per cercare
lavoro. Sapeva del disagio della lingua, delle sue difficoltà di
capire e di farsi capire, ma mai le aveva parlato di una donna e di
altre due figlie. Lo aveva conosciuto come un grande lavoratore. Era
stato anche in Svizzera, in Arabia dove raccontava di un clima
impossibile, 50-60 gradi, irrespirabile. Le aveva raccontato delle
abitudini della gente che aveva conosciuto, e lei si era appassionata
a quei racconti, ma quel segreto gli era rimasto nel cuore intoccato
fino alla morte.
Valentina
si vide bambina quando lo zio l’accompagnava a scuola al posto
della mamma e del papà che andavano via presto per lavoro. Ricordava
le attenzioni che lo zio aveva per lei perché non prendesse freddo
quando d’inverno le giornate erano rigide e piovose. Ricordava il
gioco della “sorpresa” che lo zio teneva stretta in pugno nelle
sue mani grandi e aspettava che lei indovinasse la mano giusta per
donargliela.
Chissà
se in quei momenti di gioco lo zio non pensava alle sue bambine ormai
donne mentre lui forse le ricordava ancora piccolissime come quando
le aveva lasciate. Quale sofferenza poteva provare senza poterla mai
comunicare a nessuno.
L’animo
di Valentina era agitato da mille pensieri, dibattuta fra la rabbia,
la pena, e la comprensione. Ripassò in rassegna alcuni momenti della
sua vita e si ricordò di una conversazione quando ormai giovinetta
lo zio le disse:”Tu sei grande ormai, devi stare sempre attenta
alla tua scelta. Se sbagli la persona che deve stare con te
quell’errore lo paghi per tutta la vita”.
All’improvviso
lo vide sul letto di morte. Soffriva, ma sembrava che un pensiero
solo lo affliggesse. Con un soffio di voce ripeteva di continuo una
frase che lei in quel momento non capiva. “Non ho neppure una
foto”, diceva nell’affanno di morte.
Ora
finalmente Valentina si dava ragione di quelle parole sofferte,
ripetute, incomprese. Fra tutti quelli che gli stavano intorno lo zio
forse cercava le sue due bambine, le cercava disperatamente, non le
aveva mai dimenticate.
“Chi
sono io per giudicare un uomo?”, sospirò Valentina, e si accorse
che la sua rabbia iniziale, la delusione, avevano ceduto il posto a
quell’affetto che aveva avuto per lui quando era ancora in vita.
E
Roberto? Ma quella è un’altra storia.
Elvira Bonin
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